Presepi viventi

La morte della regina inglese e le successive grandiose cerimonie hanno beneficiato di una copertura mediatica paragonabile a quella che aveva seguito il decesso di Maradona. In entrambi i casi i cronisti, a giustificazione dell’entusiastica enfasi sulla genuina partecipazione emotiva del popolo, si sono prodigati soprattutto nella ripetizione ossessiva di una qualificazione di storicità. Spettatori, abbiamo vissuto davanti agli schermi la sublime esperienza che turbò Hegel a Jena, osservando – o immaginando di farlo – Napoleone sul cavallino bianco in mezzo alla sua armata: potremo raccontare agli eredi “io c’ero”, mentre sfilava la Storia.  La STORIA: tirata in ballo, in video, evocata, richiamata incessantemente e da tutte le parti e prospettive possibili. Il calciatore e la regnante, così diversi, accomunati dal destino: entrambi “hanno fatto la storia”. Poi, certo, si è trattato di storie differenti: non agivano negli stessi ambiti di competenza, Elisabetta e Diego Armando, ma in fondo non è semplice, è anzi impossibile, separare la Storia dalle storie. I criteri di storicità sono opinabili, mutano a loro volta nel tempo e nello spazio: questioni complesse. E’ interessante che, nel nostro caso, i due defunti, di indiscutibile impatto mediatico, siano stati nel contempo assolutamente insignificanti dal punto di vista storico: almeno secondo i criteri sino ad oggi invalsi nella stesura dei manuali in uso presso le istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado, e pur tenendo conto della varietà delle impostazioni storiografiche. Lasciamo perdere il calciatore, che senz’altro un posto nella storia del pallone l’avrà guadagnato (sotto i cinquant’anni, qualcuno si ricorda di Puskàs ?). La regina Elisabetta, nelle vicende sociali e politiche inglesi del ventesimo secolo ha giocato un ruolo che sarebbe arduo definire più che coreografico e marginale: a prescindere, ovviamente, dal ruolo di sicuro rilievo nella storia del turismo e dello spettacolo.

Turismo e spettacolo: i reali inglesi mi fanno pensare ai presepi viventi; ce ne sono di molto apprezzati in tanti comuni italiani. Certo, il presepe inglese se la gioca sul mercato del turismo planetario: il livello è quello della finta Venezia cinese, delle piramidi egizie a Las Vegas, di Disneyland ecc.  L’aspetto più attuale della questione, per quanto attiene al rapporto del nostro presente con il passato, è che i luoghi storici di maggior potenza evocativa – in primis e per molte ragioni quelli europei – sono percepiti e di fatto diventati dei prototipi: le loro attrattive (turistiche) derivano dalla loro prolificità: hanno reso possibile la creazione di molti e famosi cloni, parchi tematici, gadget, immagini e sfondi per miliardi di foto e siti e autoscatti, docufilm, film, spot…

Da questo punto di vista, Venezia, il Colosseo o le dimore dei reali con i loro inquilini sono infine diventati esempi riusciti di luoghi totalmente de-storicizzati: non-storici come, d’altra parte, tutto ciò –persone e cose – che ha perduto la possibilità di collegare il passato con il presente attraverso la memoria. Tradizioni, ideologie, antiche speranze, progetti: il testimone che passa di generazione in generazione, i compiti assegnati dagli antenati ai posteri: la Storia trasmette eredità impegnative e i suoi luoghi, resti, simboli non cessano di interrogare il presente. Oppure sì, ma allora la storia è finita: come avviene quando lo sfruttamento spettacolare, mediatico, commerciale certifica l’interrompersi di una qualche relazione significativa con il passato nel momento in cui lo offre come pseudo-oggetto di consumo. Il palio dei borghi non ci indurrebbe a ripensare al medio Evo nemmeno se ci autorizzasse, per un giorno, a pisciare dai balconi: come forse si faceva allora.

Elisabetta e Maradona, ma anche Putin e l’Occidente. Ferve il dibattito, tra esperti e profani, sulle ragioni storiche e geopolitiche delle mosse del capobastone russo e, d’altro canto, lui stesso, nei suoi rachitici discorsi, qualche pezza giustificativa la cerca nella tradizione. Poi ci sono intellettuali e storici di corte, che servono a nobilitare culturalmente le decisioni supreme. Eppure c’è un’evidente dissonanza, un deficit di credibilità: i “grandi”, sino alla seconda guerra mondiale e al dopoguerra freddo, risultavano più convincenti, anche perché ci credevano loro stessi, quando si appellavano alle storie, alle ideologie, ai valori.

Oggi sono in gioco volontà di potenza e interessi ai più vari livelli, oltre alla sempiterna follia, ma si ha l’impressione che il legame invocato con missioni e tradizioni sia piuttosto labile per tutti. “A cosa crede Putin ?”: sembra una domanda un po’ datata, come se si sapesse che, in fondo, probabilmente non crede a niente: forse crede di dover (far) credere che crede nella Storia. E non è lo stesso per i campioni del “libero Occidente” ?

I britannici, per tornare a loro, credono forse alla monarchia nel modo in cui ci hanno creduto i loro antenati ? La loro adesione assomiglia di più al tifo calcistico: Maradona. Risultavano infatti patetici, quei cartelloni sollevati davanti alle videocamere da uno sparuto manipolo di repubblicani inneggianti al superamento della monarchia: sembravano gente che ha sbagliato secolo, o set: come se degli animalisti manifestassero, in un cinema, contro i protagonisti di un film tratto da Moby Dick. Confusione tra spettacolo della storia, della politica, del conflitto e storia, politica e conflitti. Ma adesso andiamo a votare: da noi c’è lo spettacolo dei pupi e, ogni tanto, non basta battere le mani: tocca pure pagare il biglietto.