Morire dal ridere

di Claudio Scuto

Nella lunga storia della pittura occidentale, si fa notare il fatto che le riproduzioni del volto umano siano, con rare eccezioni, caratterizzate da espressioni serie: vasta è la gamma delle emozioni rappresentate, ma tra di esse spicca per assenza l’ilarità. E’ difficile trovare nei musei un ritratto di qualcuno che rida, a prescindere dal ceto e dalla funzione sociale del soggetto e anche a prescindere dall’epoca del dipinto.

L’enigmatico sorriso della Gioconda, si sa, ha contribuito non poco ad attribuire all’opera un valore di eccezionalità.

Credo si possa sostenere che anche nella storia della fotografia, sino alla fine del secondo conflitto mondiale, la norma, nel ritratto, fosse quella della serietà. Anche in questo caso, forse con l’eccezione dei minori e delle foto di famiglia, nessuna grassa risata: tanto nelle foto delle celebrità – anzitutto i politici – quanto in quelle delle persone cosiddette comuni.

Tutto cambia nel secondo dopoguerra: si entra nell’età dell’allegria esibita e delle dentature in vista.

Il fenomeno parte dagli USA, trova un veicolo di esponenziale accrescimento con la nascita di una vera industria della pubblicità, con i consumi di massa, la televisione: nel giro di qualche anno diventa difficile trovare l’immagine di un leader politico  non sorridente.

Oggi il pubblico è assuefatto all’esposizione ad un messaggio mediatico nel quale – dalle televisioni al web – ogni tipo di contenuto è incorniciato dalle risate. Ogni tipo di contenuto, inoltre, può essere trattato nel contesto di una comunicazione ridanciana. Credo non vi siano precedenti paragonabili, nella storia umana: la società dello spettacolo è quella in cui il successo ed il peso nel discorso pubblico (nell’infosfera)  dei professionisti della risata raggiunge l’apice.

Usiamo il concetto di “somiglianza di famiglia” proposto da Ludwig Wittgenstein: ironia, comicità, satira, burla, sarcasmo, sberleffo, sfottò, presa in giro, buffonata, scherzi e scherzetti, barzellette, ilarità… Fenomeni diversi che hanno in comune la contiguità, più o meno stretta, con i modi di ridere di cui  si dice gli animali siano sprovvisti. Fenomeni sui quali la letteratura è sterminata: da Platone (Socrate) ed Aristofane a Cervantes e Rabelais, sino alle riflessioni di Vico e Nietzsche sulle fasi ironiche terminali delle civiltà e a quelle teoriche di Freud, Pirandello, Bergson, Jankelevitch e, ancora,  a tutte le più recenti analisi sull’infantilizzazione delle società postmoderne.

David Foster Wallace, uno scrittore a noi cronologicamente abbastanza vicino, ha cercato di pensare al significato dell’ironia nell’America del secondo dopoguerra. La sua riflessione, sviluppata sia attraverso interviste e scritti saggistici, sia nei romanzi, ruota attorno al cambiamento del significato sociale dell’ironia tra gli anni ‘50/’60 e gli anni ’80 del secolo scorso.

La sua tesi di fondo potrebbe essere sintetizzata in questo modo: sino alla fine degli anni ’60, alla fase conclusiva della guerra in Vietnam, l’ironia è stata un’arma della critica antisistemica da parte delle componenti intellettuali critiche; tra i ’70 e gli ’80 il business mediatico si è impadronito del discorso ironico, autoreferenziale, e ne ha fatto la propria modalità di comunicazione fondamentale: in ambito pubblicitario e poi imponendolo a tutte le forme di comunicazione di massa, anzitutto televisive.

In Foster Wallace il riferimento teorico fondamentale, in tema di linguaggio, è certamente il Wittgenstein dei giochi linguistici e il campo di osservazione è quello delle televisioni commerciali e della pubblicità ante internet. Non si trova, nei suoi testi e nelle sue interviste, il nome di Gregory Bateson o un uso esplicito della teoria del “doppio legame”, eppure colpisce quanto alcune sue intuizioni si muovano nella stessa direzione : nell’uso mediatico dell’ironia postmoderna Wallace rileva la presenza fondamentale di un messaggio contraddittorio, che potremmo definire come un doppio vincolo schizofrenogeno, che incornicia qualunque contenuto in un contesto autoironico: il “vero” diventa sempre, in questo modo, parte del falso. Niente va preso “seriamente” o “alla lettera” in un contenuto pubblicitario o propagandistico, ma non esiste messaggio televisivo che non rientri in tali categorie. Anche se non necessariamente in modo esplicito, il contenuto è sempre virgolettato: il tipo di commento dipende dal tipo di trasmissione e dalle sue finalità. Uno spot pubblicitario può giocare esplicitamente sull’autoironia, mentre un servizio giornalistico sulla guerra può essere più subdolamente virgolettato dallo spot sulle crocchette per gatti che lo precede e dal servizio sulla moda che lo segue: in entrambi i casi il messaggio dice e contraddice qualcosa, afferma e nel contempo disconferma “ironicamente” l’affermazione. Ogni messaggio è accompagnato da un meta-messaggio che ne invalida il contenuto letterale: la cronaca di un bombardamento, se può essere preceduta, interrotta e seguita dalla pubblicità non è la narrazione di una tragedia che ci possa coinvolgere più di un istante: è una parte dell’info-intrattenimento, dello spettacolo. Se dibattiamo sull’imminente terza guerra mondiale tra una cronaca sportiva e un talent scout musicale, vuol dire che non sta veramente scoppiando la terza guerra mondiale. Il racconto degli orrori del mondo non ha mai, come target, coloro che li stanno vivendo direttamente. In altri termini: se “il mezzo è il messaggio”, secondo la tanto celebre quanto poco effettivamente pensata definizione di McLhuan , la primaria caratteristica del messaggio tele-visivo è la de- contestualizzazione di ogni contenuto in funzione degli scopi dell’emittente: scopi di lucro, di propaganda, di manipolazione delle coscienze, di intrattenimento. Le preoccupazioni di Foster Wallace riguardavano, ovviamente, anche i riverberi di tutto ciò in ambito letterario ed artistico: si chiedeva se vi fosse la possibilità che, in futuro, emergesse una nuova leva di scrittori ed artisti capaci di incarnare nuove forme di “serietà” non (auto)ironica: di farsi cioè portatori di un’indagine del reale capace di assumerne credibilmente il carico di dolore, contraddizioni, disperazione, bisogno umano di autenticità. Capaci, potremmo dire, di tenere aperti canali e forme di comunicazione sottratti alla potenza dei media elettronici e del discorso pubblicitario. Abbastanza onesti circa le proprie motivazioni da poter offrire ai destinatari dei credibili criteri di valutazione. Sappiamo che le cose non sono andate in questo modo.

Nel giro di pochi anni è avvenuta l’assuefazione del “pubblico”, prima di tutto televisivo e, successivamente, di qualunque evento collettivo, a modalità di comunicazione non condizionate dalla tradizionale segnaletica contestualizzante.

Mi riferisco, con questa terminologia approssimativa, a tutti quei segni, regole, usi e tradizioni che hanno garantito agli umani la possibilità di decifrare i messaggi e adeguare i propri comportamenti ai diversi contesti sociali: dall’impaginazione di un quotidiano ( riconoscibili pagine politiche, economiche, sportive ecc.) alla definizione dei modi appropriati di stare in situazioni diverse (funerale, messa, assemblea politica, evento sportivo, scuola, ufficio pubblico ecc.). In poche parole: a partire dalle TV commerciali il linguaggio della pubblicità ha contaminato ogni genere di comunicazione, sia in senso economico sia in quello degli stili di argomentazione e trasmissione. Parallelamente, il cortocircuito tra media e rappresentanza politica ha portato da Reagan a Zelensky, attraverso una pletora di attori-politici e politici-attori: con l’esplosione dei comici, dei produttori di satira politica e di costume e, in generale, di comunicazioni finalizzate a suscitare ilarità e messa in ridicolo di tutto e tutti. Internet e i social network si sono rivelati l’ideale brodo di coltura e di selezione per una nuova tipologia di umani, che puntano ad arricchirsi facendo soprattutto ridere un certo target. Le alternative alla risata coatta, in termini di potenzialità di successo commerciale in rete, sono sesso, violenza, consumi, musica, moda, cucina e pet. Poi, ovviamente, c’è posto anche per lo sfruttamento commerciale del dolore e dell’orrore, che hanno sempre grande audience.

Sugli effetti di tutto questo escono analisi ogni giorno.  Limitandosi ad osservare e registrare quanto ci accade, come non definire sconvolgente – almeno per chi abbia un’età che consente la memoria del mondo di ieri – il fatto che sembri ormai normale essere costantemente esposti a messaggi la cui fondamentale caratteristica è la sistematica distruzione di qualunque criterio di distinzione per contesto, importanza, gravità, significatività. Pochi decenni fa si scopriva che non erano gli spot pubblicitari a interrompere i film alla TV, ma piuttosto il contrario: oggi possiamo dire che vale lo stesso per qualunque trasmissione di qualunque genere. Pensiamo solo alla pandemia ed alla guerra e a come siamo costantemente in relazione mediatica con esse, in una sterminata boscaglia di spot, promozione di eventi del consumo musicale, sport, gossip. Guerra e pandemia, d’altra parte, non sono a loro volta – nell’incessante cronaca mediatica – oggetto di un gossip del dolore inframmezzato al chiacchiericcio e a agli strepiti dei talk show?

Cose note, certo. 

Uno degli slogan di maggior successo dei movimenti giovanili fine anni ’60 era stato “Una risata vi seppellirà”, indirizzato ai poteri politico-militari. Potremmo dire che c’era un errore nella scelta del destinatario, o forse del pronome personale: più aderente alla realtà attuale sarebbe “una risata ci seppellirà”, nel senso che saremo seppelliti tra le lacrime di qualcuno, forse, ma il rumore di fondo saranno risate e canzonette (oltre gli applausi, naturalmente).

Le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza Europea”, pubblicate negli anni ’50, raccolsero gli ultimi messaggi, scritti su foglietti o sui muri della galera, dai resistenti – donne e uomini, spesso giovani – in attesa di essere assassinati dai nazifascisti. E’ difficile leggerle senza sentire, contemporaneamente, un’esigenza, una fantasia di vicinanza accanto al sentimento di un’incolmabile distanza.

Il messaggio che ci trasmettono le testimonianze del passato, quando il loro linguaggio è capace di educare la nostra predisposizione ad accoglierle, è un sostegno all’illusione, fondamentale affinché la vita umana trovi un senso, che il “passato” viva di vita propria: illusione necessaria, che ci consente di sentirci successori degli antenati come gli anelli di una catena si succedono gli uni agli altri, senza che la catena si spezzi. Le memorie del passato ci trasmettono, nel contempo, anche un altro messaggio, che è in contraddizione con il primo: che non esiste alcun “passato”, dietro di noi, ma solo le tracce di “presenti che sono finiti nel nulla” e dei quali possiamo assumere l’eredità solo custodendo le parole che hanno lasciato. Per farlo, dobbiamo accettare l’incolmabilità della distanza dagli assenti, dai morti: possiamo solo riempirla con i nostri pensieri, con la nostra immaginazione, con le emozioni, ma a condizione di saper rispettare e mantenere la distanza.

Non possiamo che oscillare tra questi due modi di custodire il lascito di chi ci ha preceduto, nella speranza che lo stesso faranno quelli che ci seguiranno: sapremo trasmettere criteri sensati per discernere nel nostro presente, nel loro passato, qualche testimone che valga la pena di essere raccolto ?

Con il nostro forsennato tentativo di saturare ogni distanza, nel tempo e nello spazio, schermando ogni realtà con l’eterno “tempo reale” della comunicazione tele-visiva, forse stiamo distruggendo tutto ciò che potrebbe rendere significativo un ricordo,  stiamo eliminando il concetto stesso di “ricordo”. Forse i nostri eredi rideranno di noi e ce lo saremo meritato: in tal caso, però, non rideranno davvero di noi, ma della ridicola immagine che avremo trasmesso ai posteri: ammesso e non concesso che noi si sia stati qualcosa di più e di diverso di ciò che abbiamo riversato in un gigantesco archivio di immagini. D’altra parte,  i posteri non lo sapranno mai, cosa siamo stati “dietro le apparenze” digitali: probabilmente, in quanto nostri eredi, non saranno nemmeno in grado di chiederselo.

Non ci rendiamo più e non ci rendiamo ancora conto di quello che sta avvenendo:  probabilmente  la fine di una certa esperienza psichica dell’umano è così accelerata che le possibilità di averne consapevolezza si sono già ridotte a quasi niente.