di Claudio Scuto
Senza effettuare ricerche, affidandomi alla memoria, non ho avuto dubbi né difficoltà ad individuare l’immagine “virale”che, negli ultimi anni, ha lasciato in me la traccia più inquietante: non si riferisce alla pandemia, a guerre, carestie, catastrofi naturali. Sono le immagini del robot Perseverance, sganciato sul pianeta Marte dagli USA nel febbraio 2021. La cronaca della sua discesa vittoriosa sul suolo marziano ha toccato l’apoteosi quando, con grande copertura mediatica, è giunto il suo primo saluto alla casa madre, accolto dagli applausi del centro operativo: lassù, alla conquista del pianeta guerriero, c’era uno di noi. E’ stato battezzato con un nomignolo disneyano e ha emozionato il pubblico come un umanoide in una saga seriale di fantascienza.
L’impresa va collocata nella competizione spaziale tra i nazionalismi più potenti, competizione nella quale rientra anche il lancio in orbita dei primi vettori del turismo extraterrestre: i monopolisti americani del digitale hanno aperto la nuova frontiera dei viaggi planetari per miliardari, tra gli osanna dei media della globo- sfera e messaggi ottimistici sulla possibilità di realizzare, entro la metà del secolo, una prima colonia su Marte.
L’immagine del supertecnologico giocattolo, sperduto in un deserto di sassi e sabbia, mi ha comunicato la desolazione di una solitudine definitiva: solitudine in un mondo alieno di un oggetto nato dall’operare umano, solitudine degli umani nello spazio cosmico, solitudine dei nostri discendenti su un pianeta sempre meno ospitale e, infine, solitudine di una Terra non più abitata e osservata da esseri umani.
Non sono in grado di valutare le imprese spaziali con uno sguardo scientifico, tecnologico, militare, geopolitico, economico: il pubblico non specialistico ha ricevuto messaggi centrati sul valore “universalmente umano” di queste imprese: anzitutto per le generazioni future. Sono circolate affermazioni sulla colonizzazione dello spazio: dicono che i tempi non sono ancora maturi, certo, ma ci arriveremo. Quando la Terra non sarà più ospitale, saremo in grado di emigrare altrove: dichiarato da astronauti, superingegneri e scienziati visionari.
Ci siamo abituati, a questi cortocircuiti della comunicazione: affermazioni che hanno un significato in un contesto definito e compreso dai partecipanti, lanciate nell’info-sfera diventano altro. Posso comprendere che le ipotesi sulle future alternative alla Terra siano un’affascinante sfida intellettuale, per i membri dell’elite tecnologica ed economica che ruota in vario modo attorno alle imprese nello spazio: si tratta, suppongo, di persone piuttosto libere da preoccupazioni a breve termine circa le condizioni di sopravvivenza propria e dei congiunti. Per il pubblico anonimo, mi sembra che futuro extraterrestre, turismo spaziale e, fintanto che siamo qui, immersione nella “realtà aumentata” e nel meta-verso virtuale convergano in un messaggio unificante che invita ad evadere, a disinvestire dalle tribolazioni terrene, a credere che ve ne sia la possibilità.
E’ notevole che i colossi digitali la cui missione sarebbe “connettere gli esseri umani” – ovviamente perché realizzino i propri desideri – siano nel contempo i portatori di un messaggio di disconnessione radicale con le condizioni materiali, sensoriali, ambientali, irrimediabilmente terrestri della nostra vita.
Di certo su Marte non andremo, e nemmeno a gridare entusiastici “My God” su una navicella, mentre guardiamo la Terra assieme a qualche altro frequentatore della Gardaland dei miliardari. I più fortunati, tra noi, cioè quelli appartenenti alle zone medio-alte del consumo di beni, si accontenteranno dei super-occhiali e dei sensori, per entrare nel luna-park del mondo aumentato e inviare i propri avatar in quello tecnologicamente sostitutivo.
Tralasciamo domande retoriche sulle emissioni di gas serra prodotte da ogni decollo turistico e dagli impianti che alimentano i meta-versi, evitiamo domande sui danni umani e ambientali legati alle attività estrattive ed ai consumi energetici : certo, colpisce che il web e lo spazio siano i grandi assenti dai dibattiti e dagli incontri internazionali sulle emergenze climatiche. Tanto i governi nazionali quanto i giganti della new economy si dichiarano comunque impegnati nella “lotta contro il riscaldamento globale”: G20 e COP26 si riuniscono e il pubblico planetario assiste alla parata dei potenti della Terra. Le difficoltà sono evidenti, gli accordi deludenti, gli impegni vaghi, ma alternative non ce n’è: le manifestazioni di protesta e pressione suscitano simpatia, ma gli unici che possono “prendere le decisioni” sono loro: i “potenti della Terra”.
Ecco, se le cose stessero effettivamente in questi termini, le prospettive sarebbero, si potrebbe dire, normalmente terribili come lo sono sempre state nelle breve storia che abbiamo alle spalle: loro deciderebbero, pochi ne avrebbero vantaggio, molti ne pagherebbero le conseguenze: soprusi, guerre, miseria.
Può darsi che si tratti di un’illusione ottica retrospettiva, ma ci sembra di poter credere che i potenti avessero, nel passato, un certo gradiente di libertà nello scegliere come agire: molto limitato dal gioco delle forze sociali, ma almeno parzialmente reso possibile dagli effetti contenuti delle azioni umane sul pianeta.
Vien da pensare che non ci sono più i potenti di una volta: di fronte alle catastrofi che ci investono, i grandi leader della politica e dell’economia rappresentano spettacolarmente i vertici dell’impotenza in cui tutti annaspiamo. Cosa fanno e, soprattutto, cosa potrebbero fare ? E cosa, forse, vorrebbero fare ?
Il rituale degli incontri internazionali segue il solito protocollo: saluti, ammiccamenti, passerelle, incontri plenari e bilaterali, dichiarazioni, documenti finali. La copertura mediatica garantisce che le immagini inondino i dispositivi di ricezione del mondo intero: c’è posto anche per le coreografiche manifestazioni di protesta, che chiedono scelte più radicali.
Che si impongano decisioni tali da ripensare dalle fondamenta i cosiddetti “modelli di sviluppo” lo sostiene una parte forse maggioritaria della comunità scientifica mondiale e lo pensa una parte della cosiddetta “opinione pubblica”: quali sarebbero, poi, concretamente, queste decisioni è il tema del confuso confronto che si sviluppa un po’ dovunque, ai più diversi livelli di incompetenza.
Lo scenario sembra accrescere il consenso agli argomenti dei movimenti giovanili che contestano ai politici, ai governi, l’incapacità di passare dalle parole ai fatti.
Eppure, osservando le immagini dei capi di stato riuniti nel G20 e degli interventi al consesso delle Nazioni Unite, è più forte che mai l’impressione che tutti recitino, in senso letterale, la parte dei decisori.
Non è che vogliano intenzionalmente ingannare il pubblico pagante, o gli elettorati: il loro ruolo è quello di blandire e rassicurare il vasto pubblico nazionale e internazionale, mandando nel contempo messaggi più mirati ai rispettivi target di riferimento: forze economiche, militari, burocratiche.
Interrogarsi su cosa potrebbero fare, se lo volessero davvero, il presidente americano o il leader cinese in realtà non ha maggior rilevanza del chiederselo con riferimento a chiunque. Può anche darsi che la sensibilità ecologista di entrambi non sia inferiore alla nostra.
Probabilmente non sono peggiori dei leader che li hanno preceduti, come noi non necessariamente lo siamo dei nostri antenati: per loro, come per tutti, è il gradiente di libertà nello scegliere tra opzioni alternative che sembra essersi improvvisamente ridimensionato. Sono i primi potenti a sperimentare la propria assoluta impotenza, di fronte all’inedita necessità di prendere decisioni per limitare processi destinati a produrre catastrofi planetarie: decisioni che non sono in grado, nel modo più assoluto, di prendere.
Immaginiamo che il capo di stato di una grande nazione sia motivato dalla più acuta consapevolezza della gravità della situazione: fosse per lui, si dovrebbe procedere con misure draconiane per ridurre l’emissione di gas serra in pochi anni, costi quel che costi.
Quale che sia la grande o piccola nazione della quale è il leader riconosciuto, se la sua azione – a parte naturalmente l’enfasi delle dichiarazioni, dove gli sono consentite, entro certi limiti, delle libertà interpretative – dovesse procedere, anche minimamente, oltre i limiti stabiliti dal coacervo delle forze economico-sociali che gli stanno alle spalle, il suo destino sarebbe segnato. Tempi e modalità cambieranno un po’ da situazione a situazione, ma l’esito sarebbe certo: ai presunti massimi livelli decisionali non può esserci posto per quella che Max Weber definiva “etica dell’intenzione”: se un soggetto intende mantenersi aderente alla sue personali convinzioni, laddove siano in gioco interessi collettivi, deve stare lontano dai luoghi del potere decisionale. Oppure esercitarli in contesti che non investano realmente l’ambito delle scelte economico-politiche: i leader religiosi possono chiedere esplicitamente la fine dei conflitti armati, la redistribuzione della ricchezza ecc. Tutti sanno, loro per primi, che si tratta di esortazioni innocue.
Questo non significa che i capi politici siano solo portavoce di interessi: un certo margine di discrezionalità operativa lo mantengono, probabilmente, su questioni di notevole impatto mediatico come quelle più connotate ideologicamente: rapporti tra i sessi e annesse cornici moralistiche, nazionalismo, xenofobia, pulsioni guerrafondaie…si potrebbe dire che il loro potere è ancora, in versione ridotta, quello di tutti i loro storici predecessori: un certo potere di fare danni, di continuare a fare ciò che invece si dovrebbe smettere di fare.
La sostanziale impotenza, che accomuna i politici ai supermanager del capitale globalizzato, diventa evidente di fronte agli effetti di lungo periodo dell’azione umana sul pianeta: disastro climatico, demografia, pandemie, inarrestabile rincorsa tecnologica.
Diventa evidente ?
Forse non proprio così evidente.
Torniamo al robottino su Marte: i media hanno fatto quel che dovevano per spingerci ad “antropomorfizzarlo”: è il loro mestiere tradurre in cronaca dell’evento (possibilmente “in diretta”) e in storytelling qualunque argomento: un ciclone deve avere un nome proprio, figuriamoci un simpatico gadget su un altro pianeta.
I media, però, con questa incessante traduzione in storielle non fanno che assecondare una tendenza spontanea del loro pubblico. Una ricchissima storia di riflessioni, ricerche, sperimentazioni sempre più sofisticate, iniziata dalla filosofia e dalla letteratura, sviluppata dalla psicologia e dalle neuroscienze, lo ha dimostrato ampiamente: il nostro cervello antropomorfizza spontaneamente gli stimoli sensoriali e solo con un faticoso addestramento contro- intuitivo riusciamo a cogliere, nel reale, causalità fisiche invece che intenzioni.
Quindi umanizzare un robot ci risulta spontaneo quanto vedere un volto in una nuvola, o credere nell’adesione personale di un attore al messaggio che ci trasmette dietro compenso: la novità emergente da alcuni anni è che siamo sospinti a ri-antropomorfizzare gli esseri umani, il che è chiaramente paradossale.
Credo sia un fenomeno corrispettivo, meno immediatamente comprensibile, alla tendenza a de-umanizzare gli umani quando ci vengono proposti in grandi numeri: le migliaia di morti mediterranee, siriane, afgane…da covid. Statistiche.
Invece vi sono umani che, ugualmente lontani dalla nostra quotidianità, sono oggetto di uno spontaneo (anche se incoraggiato in ogni modo dai media) investimento antropomorfico di secondo grado: sono proprio i “potenti della Terra”. Di fronte a loro siamo indotti ad effettuare un’operazione mentale inversa rispetto a quella che, presumibilmente, caratterizzava nell’antichità egizia o romana le popolazioni: la divinizzazione dei capi.
Noi invece attribuiamo loro un arbitrio decisionale più o meno paragonabile al nostro, solo con un raggio d’azione più vasto: interpretiamo il loro agire come l’effetto della loro personale volontà, delle loro convinzioni in quanto esseri umani.
Posso scegliere se cambiare auto e quale acquistare, posso scegliere di divorziare, di diventare vegetariano, di cercare un altro lavoro: lui (il potente) cambierà l’aereo privato, farà un divorzio miliardario e disporrà di un harem, comprerà una fattoria con una mandria, investirà nel turismo spaziale e prenderà le decisioni necessarie a contrastare il riscaldamento globale. Se è un politico: deciderà le opportune scelte di incentivazione fiscale e i necessari investimenti nelle energie alternative ecc.ecc.
Nei loro confronti, la proiezione antropomorfica va nel senso di attribuire spontaneamente lo stesso genere di decisionalità, su scala maggiore, che attribuiamo a noi stessi e a chi ci sta attorno quotidianamente: una presunzione di capacità decisionali sostenuta, nel nostro caso sempre più precariamente, dalla rimozione della nostra impossibilità di decidere alcunché rispetto al dominio della tecnologia digitale su ogni aspetto della vita.
Nella cronaca degli ultimi raduni, G20 e COP26, i media hanno insistito sul “corteggiamento” del capo del governo X nei confronti di quello del governo Y, sull’importanza della simpatia personale di questo con quello, sul ruolo delle mogli (o dei mariti: mica siamo maschilisti !) nelle occasioni loro dedicate ecc. Niente di nuovo: è sempre stato così, anche prima dei media elettronici, ma prima i potenti si muovevano rispetto ad un fondale stabile: potevano prendere le loro decisioni, o almeno credere di prenderle, e tradurle nelle grandi imprese: il “grande mattatoio” della Storia (Hegel) che ci ha portati a questo punto.
Adesso il fondale si sta sgretolando e i processi di trasformazione hanno una tempistica totalmente irriducibile alla cronaca degli eventi e insensibile alle azioni umane dell’oggi e del domani: in questo alieno scenario in movimento, i nostri potenti sono “umani come noi” solo quando si lavano i denti e si raccontano barzellette: nelle loro funzioni ufficiali, nell’esercizio dei loro poteri, non è così. Devono farci credere, forse credere loro stessi, di disporre del nostro stesso genere di arbitrio decisionale, solo su scala molto più grande: ma non è vero, perché non è possibile. Non sono in grado di decidere nulla che possa avere una significativa rilevanza rispetto alla questioni di cui si tratta: d’altra parte, non c’è che da guardare agli accordi con cui si concludono i vertici. Lo si può dire anche al contrario: su scala maggiore, subiscono la stessa inesorabile contrazione delle pretese di disporre di un reale potere decisionale nei confronti delle determinazioni economiche, tecnologiche, ambientali.
Senza bisogno di entrare del meta-verso virtuale, i “grandi leader” nell’esercizio mediatico delle loro funzioni sono già gli avatar di se stessi: attori, maschere.
Un’ultima considerazione: quanto scritto non implica in alcun modo la convinzione che noi tutti, gli esclusi dai luoghi dei grandi poteri, ai nostri infimi livelli, con un raggio d’azione modestissimo, possiamo se non altro esercitare in piena adesione con noi stessi le nostre possibilità decisionali. Il gradiente di libertà si va restringendo inesorabilmente a tutti i livelli: la nostra dipendenza dalle tecnologie si estende ad ogni aspetto della vita mentale e relazionale, la possibilità di immaginare altre forme di vita associata si riduce ad una variante dell’onanismo.
Qual è la differenza tra la nostra posizione e la loro?
Forse si potrebbe dirla in questo modo: loro incarnano gli avatar di se stessi nell’esercizio delle funzioni e, spenti i riflettori, vivono di rendita; noi, al contrario, incarniamo i terminali fisici della megamacchina e siamo sospinti, sino a sentirlo come un nostro intimo e libero desiderio, a smaterializzarci in un avatar: per intanto, almeno un selfie e un profilo social.