Emmanuel Todd

Alla vasta bibliografia che contiene le “Storie generali dell’umanità”, della quale conosco un minima parte, ogni tanto si aggiunge un testo originale e, nel contempo, dotato di vera forza argomentativa basata su ricerca e conoscenze: libri che a volte riescono ad uscire dai circuiti specialistici.

Me ne vengono in mente due relativamente recenti: Armi, acciaio e malattie (1997) di Jared Diamond e Da animali a dei (2011) di Yuval N.Harari.

Il primo ha introdotto un radicale ripensamento, in ambito storiografico, basato sulla centralità dei fattori ambientali (climatici, orografici, della vegetazione e della fauna dominanti) nella spiegazione dei diversi percorsi delle civiltà.

Del secondo abbiamo già avuto modo di occuparci.

Ho appena terminato la lettura della Breve storia dell’umanità. Dall’homo sapiens all’homo oeconimicus (2017) di Emmanuel Todd, antropologo-sociologo-storico francese noto anche per i suoi interventi sui temi dell’attualità polico-economica.

In ambito scientifico, è riconosciuto come  uno dei massimi studiosi  di storia dei sistemi famigliari e del rapporto tra di essi,  le religioni e le forme di organizzazione sociale; argomenti ai quali ha dedicato una vita di ricerche sul campo un po’ in tutto il mondo: sottolineo questi aspetti per evidenziare come – malgrado una certa esposizione mediatica – Todd non è un tuttologo alla moda o un furbo “anticonformista” che ha scavato la sua nicchia nel mercato delle chiacchiere.

Il suo libro, in realtà non proprio “breve”,  non è di facile lettura e le argomentazioni sono sostenute da un’impressionante documentazione e da riferimenti alla ricerca sviluppatasi negli ultimi due secoli.

Non tutte le tesi in esso avanzate mi hanno convinto, alcune hanno suscitato non poche perplessità, ma ho trovato anche analisi veramente notevoli: tra l’altro spesso convergenti, pur dedicando quasi nessuna attenzione ai temi di fdm, con molte idiosincrasie e valutazioni che in questi anni abbiamo condiviso. Vastissime conoscenze, acume analitico e coraggio intellettuale:  il risultato è un punto di vista critico e anticonformista che costringe a pensare.

Tralasciando moltissimi temi affrontati nel libro, propongo di seguito una schematica sintesi di alcune delle argomentazioni e tesi di Todd.

  1. Una critica radicale agli economisti accademici che, accanto alle tendenze liberal-liberiste dominanti, non risparmia i contestatori “pavidi” della globalizzazione come Stiglitz, Piketty e Krugman. La critica  è basata su una visione antropologica della storia che, malgrado “la nullità degli economisti accademici provenienti dall’establishment, universitari o mercenari delle banche che siano, non deve condurci a rigettare l’analisi economica (…) e la sua premessa dell’individuo razionale, questo homo oeconomicus egoista, ma senza dimenticare che quest’ultimo non agisce nel vuoto, e che le sue capacità e i suoi scopi vengono definiti dal gruppo, dalla famiglia, dalla religione e dall’educazione” (p.16)
  2. Un’analisi delle diverse forme  di organizzazione economica, sociale e politica – a livello planetario- che (analogamente, ma da diverso punto di vista, alla teoria di Fernand Braudel sulla “lunga durata”) individua, sotto la “superficie della storia” (l’economia e la politica raccontata dai media), un “subconscio sociale” che riguarda l’educazione ed un “inconscio delle società” radicato nei modelli di famiglia e nella religione (sistemi in costante co-evoluzione): livelli profondi che si trasformano nei tempi lenti dei secoli e dei millenni.
  3. La proposta di un “modello capovolto della storia”. Todd scrive che “ Quarant’anni di ricerche sui sistemi familiari mi hanno portato a realizzare che il modello storico standard ( dalla famiglia complessa alla coppia coniugale) era un’assurdità fattuale. La famiglia originaria era nucleare e questa forma antropologica non è mai stata inventata, visto che fu quella dell’homo sapiens allo stato nativo” (p.28). Le forme familiari comunitarie (patrilineari euroasiatiche, esogamiche o endogamiche, di tipo stipite o ceppo con primogenitura, più o meno egualitarie orizzontalmente, matrilineari ecc.) sono creazioni della storia che si stendono su cinque millenni, a partire dall’agricoltura. Il peggioramento della condizione femminile è stato, in forme varie, un aspetto molto costante dell’irrigidimento delle forme familiari storicamente affermatesi. La specie homo sapiens originaria era caratterizzata da una monogamia “statisticamente ma non moralmente dominante”: cioè  flessibile a seconda dei contesti ambientali e delle possibilità di sopravvivenza Una condizione di “disordine sperimentale originario” – non ancora trasformato dall’agricoltura e dalle religioni universalistiche, dalle quali emergeranno norme e tipi differenziati di famiglia- in cui domina la sessualità uomo/donna, ma con una certa indifferenza nei confronti dell’omosessualità, della poliandria, poliginia, dell’infanticidio e dell’eliminazione degli anziani. L’unico tabù universale, specie-specifico, sembra essere stato quello dell’incesto. Una conseguenza: più si è vicini, geograficamente, ai luoghi di apparizione dell’agricoltura, più il tempo di sperimentazione delle forme familiari e sociali (la storia) è stato lungo, più la famiglia è complessa. Più si è lontani, più il tempo storico  è stato breve, più la famiglia tende ad essere nucleare. Le ideologie individualistiche, liberali e democratiche sono periferiche: situate in regioni con una storia breve e la persistenza di modelli familiari nucleari egualitari.  Il contrario avviene per le ideologie autoritarie e anti-individualistiche: storia lunga, modelli patrilineari  non egualitari tra fratelli e/o patrilineari comunitari. Esempio in Europa: la “democrazia liberale” si è affermata originariamente nei paesi di famiglia nucleare prevalente: GB, Francia, Paesi Bassi, Danimarca…
  4. La democrazia, studiata in tutte le sue forme di manifestazione storica, rivela di avere sempre avuto una base etnica. La coesione dei gruppi umani è sempre dipesa dall’ostilità verso altri gruppi: la moralità interna e la violenza esterne sono sempre state associate. Sembra che qualsiasi caduta della violenza esterna minacci la coesione interna del gruppo: la pace è un problema sociale. Ciò significa anche che non esiste alcuna identità assoluta per nessun gruppo umano (comprese le nazioni): essa è sempre relativa agli altri gruppi (noi-loro). Due esempi di conseguenze, tra i moltissimi avanzati nel testo, con riferimento a USA e Francia: “Il razzismo non può essere considerato un’imperfezione della democrazia americana, ma, al contrario, dobbiamo considerarlo uno dei suoi fondamenti: all’epoca della fondazione esso ha permesso lo sviluppo di un sentimento egualitario nel gruppo dei bianchi” (p.233) – “L’uomo universale dei francesi è un personaggio astratto: è la proiezione ideologica dei valori contenuti in una struttura familiare specifica, la famiglia nucleare egualitaria del bacino parigino” (p.237). La crescita generale della democrazia in Europa, tra il 1789 e il ‘900, è stata del resto accompagnata da una crescita non meno generale del nazionalismo. Una democrazia non è mai un collettivo astratto: se si accetta l’evidenza storica di una componente oscura, etnica, nazionale della democrazia originaria, si comprende perché adesso le spinte populistiche occidentali – in democrazie destabilizzate dal libero scambio e dalla nuova stratificazione educativa – si colorano di xenofobia
  5. Globalizzazione, affermazione di Academia e crisi delle democrazie occidentali.  La globalizzazione economica accentua le differenze tra le aree del pianeta: il libero scambio alimenta la xenofobia universale, perché a livello profondo (sistemi familiari, religiosi, educativi) le società divergono nei valori e nei modi di organizzazione.  La globalizzazione può essere analizzata come un crollo della nozione di uguaglianza che era stata creata  dall’alfabetizzazione di massa in tutte le società avanzate. I tempi d’oro della democrazia coincidono, nel ‘900, con l’alfabetizzazione primaria e secondaria, lo sviluppo industriale e del welfare. Paradossalmente, secondo Todd si può dimostrare che la democrazia è stata compromessa dall’educazione universitaria: quella che lui definisce l’affermazione di Academia. Una rivoluzione educativa, avvenuta negli anni 60/70 in America e dagli anni ’80 in Europa, che si è conclusa con una “stagnazione educativa” strutturale verificabile in tutte le società avanzate: raggiunto la percentuale del 30-35%  generazionale di laureati (con sorpasso femminile) si arresta il movimento ascendente. Michael Young (1915-2002) aveva fin dal 1958 anticipato le implicazioni dell’ideologia meritocratica (The Rise of the Meritocracy): stava nascendo Academia, la macchina della diseguaglianza: un sistema mondiale la cui funzione principale non è più l’emancipazione ma la classificazione e l’orientamento: lo scopo fondamentale è distruggere l’ideologia e le forme sociali dell’uguaglianza. Senza tenere conto di questa rivoluzione educativa, diventa difficile spiegare il tramonto repentino di tutte le culture “egualitarie” a partire dagli anni ’70 e l’affermazione di un’ideologia (più o meno conscia a seconda dei contesti nazionali e della loro storia familiare e religiosa) “meritocratica” che legittima le diseguaglianze sociali (razziali e di classe): inizia qui il percorso che in America va da Reagan ad Obama, passando dai Clinton e dai Bush. Dovunque, anche in Europa con un certo ritardo, la funzione principale dell’istruzione diventa quella di raggiungere, soprattutto confermare, una posizione nella piramide sociale, imponendo un’attitudine alla sottomissione e al conformismo. Autorità e disuguaglianza: valori di fondo di un’Academia che comunque continua a credersi “di sinistra” tanto negli USA quanto in Europa. L’accesso universale all’istruzione primaria, poi secondaria, aveva nutrito un subconscio sociale egualitario, democratico; il limite massimo dell’educazione universitaria ha causato, prima negli USA e poi altrove, un subconscio sociale iniquo. La persistenza, nelle parole degli attori politici e sociali, di una dottrina democratica egualitaria cosciente non cambia nulla: il mondo dei media, del giornalismo, dello spettacolo è del tutto collaterale e integrato in questo sistema culturale ed economico. E’ la stratificazione interna al sistema educativo (ormai articolatissima dalla formazione primaria alle università, con tutte le classifiche di prestigio ecc.) a spiegare in buona parte, negli USA come in Europa, la dissoluzione del subconscio egualitario e la cristallizzazione di un subconscio della diseguaglianza “meritata”.  Le cittadelle dell’élite: Silicon Valley e Academia planetaria. Le preoccupazioni dei laureati d’élite non sono fondamentalmente economiche: sono al riparo dalle fluttuazioni del mercato (anche perché l’accesso ad Academia è comunque, statisticamente, largamente determinato dalla condizione della famiglia di provenienza). Sono piuttosto permeati da un sentimento di superiorità intellettuale e tendono a disprezzare il popolino, considerato chiuso ai valori della tolleranza intellettuale o sessuale. Esprimono una pura ideologia di casta al libero scambio che alimenta la diseguaglianza economica. L’amore di Academia per gli uomini in generale la rende aperta all’idea dell’immigrazione, legale o clandestina, mentre favorisce di fatto le condizioni materiali e ideologiche di una ostilità massimale. E’ un “conformismo internazionalista”: Academia è progressista, ma sostiene una realtà UE fallimentare, accetta il libero scambio che distrugge il lavoro, nega che è necessario un territorio stabile affinché funzioni una democrazia. Strano connubio, nel mondo avanzato,tra un’Academia di sinistra e la difesa di politiche economiche svantaggiose per le masse: la sinistra si è trasformata in destra senza rendersene conto, attraverso le diseguaglianze del sistema educativo. Allo stadio attuale della storia, in un contesto in cui si sono mescolate innovazioni tecnologiche, stagnazione dell’istruzione e regressione del tenore di vita, non bisogna cadere nell’errore di credere che gli USA siano in testa nella gara per ciò che definisce il “progresso”: è stato vero sino al 1965 circa, ma a quella data gli USA sono entrati, per primi, nella stagnazione educativa. Se oggi sono in testa alla corsa, è per indicarci le vie da seguire per questa stagnazione. In America la Seconda Guerra Mondiale era stato il momento di massima spinta egualitaria, mentre la guerra in Vietnam ha segnato la fine dell’egualitarismo americano: l’opposizione studentesca (universitaria) e la partecipazione diretta della working class al conflitto ha cristallizzato i sentimenti di classe e la opposizione tra “popolo” e classi istruite. A Trump si arriva partendo da lì, attraverso le politiche dei liberal clintoniani ultraliberisti. Il lavoro di Piketty evidenzia come, dal 1913 al 2003, l’ascesa della diseguaglianza economica  segua quella della diseguaglianza educativa. A partire dal 1980 (Reagan) la liberazione dei redditi  dei più ricchi sfugge alla gravità di qualsiasi razionalità tecnica o economica e diventa inarrestabile: processo favorito da tutte le amministrazioni (democratiche e repubblicane) successive. L’opzione del libero scambio integrale ha messo i lavoratori americani ed europei in concorrenza con quelli del cosiddetto Terzo mondo, con tutte le conseguenze che abbiamo constatato. In America, va aggiunto, la democrazia era nata da un’uguaglianza bianca definita dalla contrapposizione ad un’inferiorità indiana e soprattutto nera: da questo punto di vista, l’integrazione dei neri nella vita politica ha contribuito a destabilizzare il sentimento egualitario bianco. Associate, la nuova stratificazione educativa e la lotta contro la segregazione spiegano il crollo dei principi egualitari. Motore dell’uguaglianza bianca fino al 1960 circa, il sentimento razzista è diventato dagli anni ’80 uno strumento  per distruggere l’uguaglianza economica bianca (del tutto relativa, ovviamente) portando allo smantellamento dello stato sociale (Reagan: Stato federale= favoritismi assistenziali ai neri). Con Clinton, peraltro, si arriva al record di incarcerazione dei giovani neri. Da Clinton ad Obama, passando attraverso i Bush: liberizzazione finanziaria, detassazione redditi elevati, ideologia globalista e meritocratica e…incarcerazione di massa (750 ogni 100.000 abitanti nel 2011: primato mondiale). Intanto, con le crisi ricorrenti, all’inizio del nuovo  millennio diventa sempre più chiaro che l’educazione universitaria non apre più alla mobilità verticale, ma rappresenta un tentativo di protezione contro un eventuale tracollo sociale. Paradosso finale “ La repressione mirata in base alla razza ha permesso un’ultima inquietante mutazione dell’egualitarismo bianco. Scomparsa nell’accesso all’istruzione e nella ripartizione dei redditi, l’uguaglianza bianca sussiste sotto una forma negativa: quello che hanno in comune i bianchi, ormai, è il privilegio di non essere colpiti dall’incarcerazione” (p.289). Il divario educativo e sociale persistente nella società americana tra chi è più e meno istruito (statisticamente: democratici e repubblicani) suggerisce che la spaccatura in due fortezze ideologiche potrebbe dividere in modo duraturo l’America e condannarla all’impotenza strategica: lo sviluppo delle democrazia rimarrebbe allora prigioniero della sua matrice xenofoba. Al quadro generale va però aggiunto che, in tutto l’Occidente, la contrazione del reddito della parte meno anziana della popolazione è un effetto inevitabile della rivoluzione neo-liberale e in modo specifico del libero scambio, che schiaccia con grande imparzialità tutti quelli che non possiedono capitale: i giovani e gli operai. Fenomeni come Sanders e  Trump, da questo punto di vista, sono rappresentativi di spinte antiglobaliste destinate a durare. Quanto all’Europa, autorità e diseguaglianza sono i suoi veri fondamenti attuali: una gerarchia di nazioni, più o meno ricche e potenti, più o meno dominate, dentro un’entità i cui valori pratici sono l’opposto dei valori fondatori. La prospettiva sembra essere quella di una abolizione della democrazia come l’abbiamo conosciuta nel XX secolo.

Mi fermo qui. Nel testo vi sono approfondite e anche opinabili analisi della situazione cinese, russa, tedesca, giapponese e, in sostanza, di tutte le aree mondiali più significative. L’autore si astiene dall’avanzare proposte e dal formulare giudizi etico-politici, salvo rare eccezioni. Vi sono anche concetti molto interessanti come quello di “memoria dei luoghi”, dell’importanza dei “valori deboli” nelle popolazioni o del “cattolicesimo zombie”, ma non avrebbe senso cercare di ridurli a poche frasi. Il quadro generale che emerge dalla lettura non è certo ottimistico, sul nostro futuro prossimo, ma questo in fondo è l’aspetto meno sorprendente. Spero di essere riuscito ad evidenziare quanti siano gli  argomenti sui quali  Emmanuel Todd costringe a riflettere.